Parrocchia San Francesco d'Assisi
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Messaggio  Fabrizio Mer Gen 14, 2009 8:10 pm

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Ginepro, nativo di Assisi, nel 1210 «fu vestito del suo Ordine Minore dal P.S. Francesco, e divenne suo dilettissimo discepolo; e da lui stimato per uno delli più perfetti, ch’avesse» (L. Iacobilli, Vite, I, p. 28 ).
Forse pochi altri, tra i primi compagni di S. Francesco, hanno raggiunto tanta notorietà come lui.
L’Anonimo perugino lo qualifica come «uno di quelli che più si distinsero tra i primi discepoli di Francesco». Questi giunse a stimarlo a tal punto, che soleva ripetere: «Volesse Iddio che di tali ginepri ne avessi una selva intera!».
Altrettanto o più ancora lo stimava S. Chiara, lieta di averlo accanto a sé, mentre nel suo letto di inferma era ormai prossima a morire. Essa lo chiamava con un vocabolo che Cuthbert traduce con «giocattolo di Dio»; Fortini come «giullare del Signore»; e Omaechevarría come «arciere di Dio», a motivo delle sue ardenti, improvvise e celebri giaculatorie.
In realtà frate Ginepro fu quelle tre cose insieme.
E la stima che gli professarono le due massime figure del francescanesimo (Francesco e Chiara), sottolineano che non ci si trova di fronte a un pagliaccio, ma a una personalità di altissimo rilievo.
I suoi aneddoti sono certamente quanto di più divertente, ma anche di più esemplare si possa leggere. Egli, sottolinea Fortini, fu «il folle del poema eroico del francescanesimo».
Nell’identikit del frate minore, Francesco inserisce frate Ginepro come colui che «giunse a uno stato di pazienza perfetto con la rinuncia alla propria volontà e con l’ardente desiderio d’imitare Cristo seguendo la via della croce» (Specchio di perfezione, cap. 85).
Di frate Ginepro si conosce la semplicità paradossale, che lo spinge sino a denudarsi completamente sulla strada, per sentirsi deriso (cf. Della vita di frate Ginepro, capp. VIII, XI) ; o che lo porta a tagliare un piede ad un maiale, che pascolava nei pressi del convento, per contentare un confratello malato (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. I). Se ne conosce, inoltre, l’umorismo, che gli suggerisce risposte e atteggiamenti, che possono anche esser considerati pazzeschi, ma che si scoprono invece ripieni di tanta sapienza.
Per questo si riesce a capire perchè S. Francesco lo abbia potuto proporre a modello, affermando: «Vero frate minore sarebbe chi avesse in tanto disprezzato sé e il mondo come frate Ginepro».
Ed altra volta, dopo lo scandalo del piede mozzato al maiale, per compiere un atto di carità, S. Francesco esclamò: «Fratelli miei, volesse Iddio che di tali Ginepri io n’avessi una grande selva!» (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. I).
La sua vita si svolse soprattutto ad Assisi, dove, come già riferito, entrò nel gruppo della prima generazione dei frati circa l’anno 1210; a Viterbo, teatro di alcuni degli episodi che meglio mettono in risalto la sua abnegazione (cf. Della vita di frate Ginepro, capp. III, VIII); ad Alviano, dove, presso romitorio di Sant’Illuminata, la sua vita fu intimamente legata a quella di frate Giovanni Attientialbene (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. XIII); e a Roma, dove morì nel 1258.
A Viterbo, più volte fu visto girare completamente nudo per le strade; ed una volta «posesi i panni in capo… vassene in sulla piazza pubblica per più sua derisione» (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. VIII).
La scena del nudismo, per mortificazione e per edificazione, fu ripetuta altra volta ad Assisi, anzi ebbe per teatro addirittura la strada da Spoleto ad Assisi. Anche qui, scandalo dei frati, rampogne del padre generale; questi, non sapendo quale castigo potesse esser proporzionato al “fattaccio”, si sentì rispondere candidamente da frate Ginepro: «Padre mio, io te la voglio insegnare; che sì come io sono venuto insino a qui ignudo, per penitenza io ritorni insino a là, donde io sono venuto a questa cotale festa» (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. XI).
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Messaggio  Fabrizio Ven Gen 16, 2009 11:41 pm

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Vengono poi gli episodi della squisita carità di frate Ginepro.
Corre al giaciglio di un confratello malato, alla Porziuncola, per supplicarlo: «Possoti io fare servigio alcuno che ti piaccia?». E udita la risposta: «Molto mi sarebbe grande consolazione se tu mi potessi fare che io avessi un peduccio di porco», Ginepro non esita minimamente: si mette sulla strada alla ricerca di un maiale. Lo trova, lo rincorre, gli taglia un piede, lo cuoce e lo serve all’infermo, godendo della sua gioia. Il mandriano dei porci lo rincorre, reclama aspramente presso S. Francesco. Ai rimproveri del Santo, frate Ginepro giubilmente risponde: «Io sì ti dico che, considerando la consolazione che questo nostro frate ebbe, e il conforto preso dal detto piede, s'io avessi a cento porci troncati i piedi come ad uno, credo certamente che Iddio l'avrebbe avuto per bene».
E quando Francesco gli impone, per penitenza, di rincorrere il mandriano e di chiedergli perdono, frate Ginepro lo fa con tanto zelo e convinzione, che non solo l’uomo cessa di maledirlo, ma si carica sulle spalle il maiale, lo uccide, lo cuoce e lo porta «con molta divozione e con grande pianto a Santa Maria degli Angeli, e diedelo a mangiare a quelli santi frati, per la compensazione delle ingiurie dette e fatte loro» (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. I).
Era ancora carità squisita quella che lo portava a distribuire ai poveri quanto gli capitava, fino a tornare più volte nudo in convento, perché aveva distribuito le vesti a chi gliele aveva chieste (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. IV).
Intima carità lo legava ai confratelli, fino a piangere inconsolabile quando nel romitorio di Sant’Illuminata (Alviano), morì frate Giovanni Attientialbene. «Oimè tapino, che ora non m’è rimasto alcuno bene, e tutto il mondo è disfatto nella morte del mio dolce e amatissimo frate Attientalbene!». E manifestò il desiderio, che può apparire macabro, ma che per lui era sentimento d’amore, di scoperchiare il sepolcro, staccarne la testa e farci scodelle, «l’una, nella quale per sua memoria a mia divozione per continuo mangerei; e l’altra, colla quale io berrei quando io avessi sete o volontà di bere» (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. XIII).
Un altro atto di carità mise invece nei guai frate Ginepro, il quale, però, con la sua semplicità mista ad umorismo, riuscì bellamente a venirne fuori.
Si trattò di questo: ad Assisi, nel Sacro Convento di S. Francesco, il sacrestano aveva adornato con ricchezza l’altare in un giorno di festa. Al momento del pranzo, chiese a frate Ginepro di montare la guardia, perché non fosse sottratto nulla. Ma questi, dopo breve spazio, si vide davanti una povera donna che chiedeva l’elemosina. Senza pensarci due volte, viste delle campanelle di argento, che avevano solo funzione ornamentale, gliele regalò, dicendo: «Queste campanelle ci sono di soperchio».
Il fratello sacrestano ricorse al padre generale, che rimproverò talmente frate Ginepro, da diventare rauco.
Il fraticello, appena terminata la sfuriata del superiore, uscì di corsa dal convento, girò le case di Assisi per farsi preparare «una buona scodella di farinata col butirro». Ritornò in convento che era notte. Ma andò ugualmente a bussare alla porta del padre generale e gli disse: «Padre mio, oggi quando tu mi riprendevi de’ miei difetti, mi avvidi che la voce ti diventò fioca, credo per troppa fatica… però ti priego che tu mangi questa farinata, ch’io ti dico che ella ti allargherà il petto e la gola». Ma il generale - probabilmente frate Elia - non mollò: riprese i rimproveri, soprattutto per il disturbo che gli era venuto a dare sul primo sonno. E frate Ginepro, pronto, replicò: «Padre mio, poi che tu non vuoi mangiare, e per te s'era fatta questa farinata, fammi almeno questo che tu mi tenga la candela, e mangerò io». Non c’era scampo. Il generale si rabbonì, la farinata fu mangiata in due. E ci fu la lezione della carità, dell’umiltà e della pazienza insieme (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. V).
Ma è un po’ semplicistico, davanti a questi episodi, definire frate Ginepro un semplicione.
Se ne era accorto anche il demonio, che tremava davanti a quella semplicità sapiente.
Un indemoniato, un giorno, si dette ad una corsa disperata. E a chi gliene chiedeva il motivo, rispose: «La cagione è questa: imperò che quello stolto Ginepro passava per quella via, non potendo sostenere la sua presenza né aspettare, io son fuggito infra questi luoghi» (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. II).
Lo stesso S. Francesco, nei casi più duri, diceva al demonio: «Se tu non esci di subito di questa creatura, io farò venire contro a te frate Ginepro» (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. II).
Tanto era, dunque, l’odio del diavolo contro il frate semplice, che tentò di farlo impiccare a Viterbo, presentandolo al tiranno della città come traditore. Ma anche questa avventura terminò con nuova allegria di frate Ginepro, che si vide bastonato e trascinato per la gola, mentre ripeteva che era degno di questo e altro! (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. III).
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Messaggio  Fabrizio Lun Gen 19, 2009 12:37 am

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Si dovrebbero raccontare anche altre penitenze di frate Ginepro, come la famosa quaresima del silenzio, protrattasi per ben sei mesi (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. VI), oppure, il notissimo «piatto di frate Ginepro», pieno di quanto era in cucina, e preparato per quindici giorni, di modo che egli potesse pregare indisturbato (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. X).
Si potrebbe sostare anche sulle estasi del frate “sempliciotto”, con le quali Dio ripagava quella semplicità (cf. Della vita di frate Ginepro, capp. XII, XIV).
Ma, per dare l’ultima pennellata al quadro, basterebbe, forse, ripetere una sua frase.
Venuti a consiglio spirituale frate Egidio con frate Simone d’Assisi, frate Rufino e frate Ginepro, discutevano sul metodo più facile per fuggire le tentazioni carnali.
Frate Simone rispose che fuggiva per ribrezzo, frate Rufino gettandosi bocconi a pregare, e frate Ginepro disse: «subito corro e serro l’uscio del mio cuore, e per sicurtà della fortezza del cuore mi occupo in sante meditazioni e santi desideri; sicché, quando viene la suggestione carnale e picchia all’uscio del cuore, io quasi dentro rispondo: - Di fuori! di fuori! però che lo albergo è già preso, e qua entro non può entrare più gente -; e così non permetto mai entrare dentro dal mio cuore pensiero carnale; di che, vedendosi vinto, come sconfitto si parte non tanto da me, ma da tutta la contrada» (cf. Della vita di frate Ginepro, cap. VII).
La sua semplicità era, dunque, una conquista: il risultato di un impegno continuo con Dio, fino ad aver abolito ogni problematica, essersi annichilito, facendosi dominare in pieno dalla grazia e dalla presenza di Dio.
Da qui la sua felicità e la vittoria in bellezza in qualsiasi occasione nella quale, chi è ancora attaccato a se stesso, si lascia scoraggiare o vincere.
A questo frate Ginepro si può applicare in modo del tutto speciale il giudizio che dava Gemelli di quella prima generazione francescana, quando diceva che la gente poverella rompe i ponti col mondo, non con l’umanità: non disprezza nessuno, preferisce essere disprezzata; in questo voler essere disprezzati entra come ingrediente una spensieratezza che a un borghese qualsiasi può sembrare disprezzo o provocazione; ma i francescani non l’avvertono, perché si sentono inviati umilmente e fraternamente ad un’umanità che vive nel peccato.
Il nostro frate Ginepro morì il 6 gennaio del 1258; era entrato nell’Ordine nel 1210: furono quarantotto anni di puro francescanesimo primitivo.
E morì in Roma, sull’arce capitolina, la zona più alta della “Città Eterna”.
Innocenzo IV aveva costruito su quella cima, con le offerte di tutta l’urbe, quello che oggi chiameremmo un complesso monumentale: oltre a un convento per i frati, una magnifica basilica, sotto il titolo di “S. Maria in Aracoeli”.
Là si riunivano le rappresentanze del Maggiore e Minor Consiglio della città, là si deliberava sulla pace e sulla guerra, là aveva pure la sua sede il Collegio dei giudici urbani. E là giunse ad avere un tempo la sua residenza ufficiale il Ministro generale dei frati minori. Innocenzo IV l’affidò ai francescani come “castello della fede e soglia del paradiso”.
Là morì il nostro eroe, in quella cornice così inadatta per “il folle della povertà e della croce”.
Morì in pace, «come se si addormentasse», passando da quella sua «soglia del paradiso», al radioso paradiso eterno.
Rispettando la sua volontà, frate Ginepro fu seppellito nell’angolo più remoto del tempio: chi aveva scelto per vivere all’ombra di un umile pianta, scelse per suo sepolcro la terra dell’angolo più oscuro di quella basilica.
Ma chi si umilia sarà esaltato.
Oggi le sue spoglie riposano nella parte inferiore di un’alta colonna della basilica di S. Maria in Aracoeli, alla sinistra dell’altar maggiore: sulla vetta della Città Eterna, vicino al Campidoglio e al di sopra di esso.
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Messaggio  Fabrizio Mer Gen 21, 2009 5:23 pm

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Non c'è miglior conclusione, parlando della vita di frate Ginepro, che questa pagina ispirata di Fortini: «Dopo sette secoli, il 22 giugno del 1958, si è proceduto alla traslazione delle sue reliquie. Cerimonia indimenticabile. Il corteggio attraversava la solenne navata. Le fiammelle dei ceri brillavano nella penombra; gli squilli degli araldi di Assisi attingevano la sommità delle colonne tolte ai templi pagani, ridestavano gli echi delle sepolture. Tutta una moltitudine vestita di bigello, di ferro, di porpora, d’oro, riviveva, palpitava su quelle pietre tombali consumate dai passi delle generazioni trascorse, sotto i baldacchini dei funebri monumenti. Un fremito percorreva la vasta basilica come al tempo delle appassionate assemblee convocate per la guerra e per la pace, per la vittoria e la sconfitta. Quante voci sdegnose e osannanti avevano percosso, nei secoli che erano trascorsi, il sepolcro nascosto di frate Ginepro!...
Adesso ritornava la sua ora. Adesso le ossa di frate Ginepro ricevevano quell’esaltazione che egli aveva voluto negarsi in vita e in morte. Cantavano tutti insieme, i frati e i cittadini, i vivi e i morti. Ripetevano le parole del graduale della messa di san Francesco: “Franciscus pauper et humilis dives coelum ingreditur”.
L’inno si diffonde nella piazza inondata di sole. E’ mezzogiorno. In una pausa del canto si odono suonare tutte le campane di Roma. E’ un suono festoso, un clamore confuso, che sale dalle chiese vicine e lontane nell’infinita pace del cielo domenicale. Il Gesù, S. Maria Nuova, S. Francesco delle Stimmate, S. Nicola in Carcere, S. Andrea della Valle, S. Lorenzo in Damaso, la Chiesa Nuova, S. Maria in Campitelli, S. Maria sopra Minerva, i SS. Apostoli, S. Giorgio in Velabro, S. Bartolomeo dell’Isola, S. Ignazio, S. Caterina, la Madonna dei Monti, S. Pietro in Vincoli, S. Maria in Cosmedin, S. Maria Egiziaca, S. Anastasia, effondono la loro preghiera, esprimono il loro saluto.
Il coro aereo osannante si indugia nel cerchio delle torri assopite sotto lo sfolgorio della luce dilagante. Poi, a poco a poco, diminuisce, tace. Ritorna il silenzio ad accamparsi sulla città augusta, sui ruderi degli anfiteatri dove agonizzarono le turbe dei martiri, sugli archi trionfali per i quali sfilarono le coni baldanzose, sui colonnati alti del Foro, sugli obelischi sormontati dalla croce, sulle cupole che navigano nell’azzurro. Silenzio, canzone dell’eternità».
Quel silenzio che tanto aveva cercato e amato il nostro frate Ginepro.
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