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abolire l’ergastolo?

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Messaggio  Fabrizio Lun Dic 01, 2008 4:51 pm

sul sito di trapaniOk c'è un sondaggio sull'ergastolo:

Da oggi un migliaio tra ergastolani e altri prigionieri, reclusi nelle carceri italiane, iniziano lo sciopero della fame per chiedere l’abolizione dell’ergastolo. Cosa ne pensate? È giusto abolire l’ergastolo?

d'impulso mi viene di rispondere evil ...scordatevelo... evil

devo dire che poi riflettendoci bene sono caduto in confusione. scratch

un vero cristiano come deve rispondere e vivere queste domande? usare misericordia? è misericordia lasciare che scontino l'ergastolo per il reato fatto ma aiutarli nella loro crescita? o è solo una lavata di coscienza?
aboliamo l'ergastolo e.... con le altre pene? mettiamo un tetto sulla misericordia? aiutatemi a capire.
scratch scratch scratch scratch scratch scratch scratch scratch scratch scratch scratch scratch scratch
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Messaggio  fra_saverio Lun Dic 01, 2008 5:54 pm

Il verbo «perdonare» deriva direttamente dal latino «per-donare» in cui la particella intensiva «per» indica il compimento. Il suo significato etimologico è quindi «donare completamente».
Ma che cosa viene donato completamente con il perdonare? La vendetta.
Infatti perdonare nella sua radice linguistica più profonda significa «donare completamente la vendetta».
Per comprendere la natura particolare di questo dono è necessario risalire all’evoluzione storica del rapporto tra vendetta e giustizia.
Nel periodo arcaico della civilizzazione umana la vendetta era considerata giustizia in quanto consentiva di ristabilire quell’equilibrio sociale che il gesto criminale aveva rotto, e garantiva perciò la stabilità del gruppo sociale.
Tuttavia l’esercizio della vendetta, che era sempre esercitato dai familiari della vittime, alla lunga non garantiva l’equilibrio e la stabilità sociale, perché introduceva nella società delle catene di odio tra le famiglie delle vittime e quelle dei colpevoli che sovente innescavano delle faide senza fine.
Per questo motivo nell’evoluzione sociale ad un certo punto l’esercizio della vendetta fu evocato a sé dalla comunità e sottratto alle vittime e ai loro familiari.
La vendetta esercitata dalla comunità rappresentò un’importante passo nell’evoluzione storica della giustizia, ma non quello definitivo.
Nella legge mosaica troviamo: occhio per occhio, dente per dente. E' il tentativo di evitare la vendetta "personale" che vada oltre il danno ricevuto, ma la pena deve essere commisurata al danno.
Il perdonare rappresenta la tappa finale di questo cammino storico della giustizia in cui la vendetta viene donata e progressivamente trasformata da atto di ira distruttrice in atto d’amore.
Questa trasformazione per non divenire un’utopia irrealizzata e irrealizzabile o, peggio, un perdonismo che non rende giustizia alle vittime, ma anzi che le umilia, richiede la creazione di un ambiente sociale in cui possa manifestarsi come vera giustizia.
Questo ambiente è quello di una giustizia che stimola e aiuta il colpevole ad assumere la responsabilità del proprio gesto pentendosi e offrendo alla società la propria espiazione come forma di ristabilimento dell’equilibrio sociale turbato.
Oltre a questo alla vittima, o ai suoi familiari, deve essere offerta una condivisione solidale del dolore che le consenta di elaborarlo e di scoprire che esso può trasformarsi in vita solo attraverso un gesto d’amore: il perdono.
Senza la presenza di questo ambiente sociale tessuto dalla giustizia con i fili dell’assunzione di responsabilità, del pentimento, dell’espiazione e della richiesta di perdono da parte del colpevole, e con i fili dell’elaborazione della sofferenza e del lutto nella gratuità di un gesto d’amore da parte della vittima, reso autentico dalla condivisone solidale della comunità, il perdono non può essere considerato un atto di giustizia.
Non può esserlo, perché il perdono dato senza assunzione di responsabilità, pentimento, o perlomeno espiazione, da parte del colpevole, senza la condivisione del dolore della vittima da parte della comunità e l’elaborazione del dolore o della perdita da parte della vittima, o dei suoi familiari, rischia di non essere vero, perché non reale, e di lasciare profonde tracce di rancore e di odio nella comunità e nel cuore delle vittime.
Ora è vero che Gesù ci ha chiesto di perdonare agli altri come il padre celeste ci perdona, tuttavia ha lasciato a noi la ricerca delle vie attraverso cui il perdono può manifestarsi nella sua piena autenticità e divenire un atto supremo di giustizia.
Educarsi al perdono non significa dire con troppa facilità: «ti perdono»; senza la fatica di costruire intorno a questo gesto le condizioni perché esso possa essere vissuto dalla comunità come l’ingresso in un livello più alto di giustizia e da chi perdona come un gesto d’amore liberatorio e non come un gesto di conformismo sociale o, peggio, di indifferenza verso il colpevole.
È solo a queste condizioni che il colpevole può iniziare il cammino verso la riconquista di quella umanità da cui il gesto efferato lo ha separato.
Perdonare non è un gesto facile, sempre liberatorio, perché esso è un gesto autentico solo se è il risultato di un cammino faticoso e doloroso di costruzione di una realtà umana più evoluta, illuminata dal segno dell’amore di Gesù che rende possibile il cammino verso la salvezza della comunità, a cui contribuiscono le vittime e i colpevoli.

(di Mario Pollo, con piccole modifiche mie)
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Messaggio  francescoleone Lun Dic 01, 2008 7:34 pm

In effetti l'argomento di quelli che ci lasciano zittiti . Devo dire che il puntuale intervento di Fra Saverio ha fatto un pò di luce ma ancora sono confuso per dire la mia. Grazie fratello Egidio per questo spunto di riflessione
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abolire l’ergastolo? Empty Giustizia e Misericordia (1)

Messaggio  fra_saverio Mer Dic 03, 2008 12:00 pm

Ho trovato questi interventi che trattano con più precisione l'argomento.


Due virtù che zoppicano se non camminano a braccetto di Angelo Bagnasco
La convinzione a cui è pervenuta la Chiesa, confrontando quanto ha visto accadere lungo i suoi duemila anni di storia con la rivelazione biblica, è che (...) non si ristabiliscono l'ordine e l'armonia infranti, se non coniugando fra loro giustizia e misericordia. Ripeto: coniugandole tra loro. Sarebbe infatti un vero delitto se, nelle circostanze attuali, a fronte delle divisioni che attraversano l'umanità e i singoli paesi, come a fronte delle rivalità che contrappongono le tribù, le famiglie e le persone, si concludesse che parlare di giustizia e misericordia è del tutto inutile. Io credo invece che nonostante le difficoltà che talune situazioni presentano, si possa e si debba parlarne. Soprattutto che si debba farlo quando si ha chiaro che giustizia e misericordia non sono parole tra loro alternative, e non indicano prospettive tra loro opposte. Come se appartenessero a due sfere non comunicanti, proprio come una certa sensibilità odierna vorrebbe oggi il rapporto tra laicità e fede. Diceva Giovanni Paolo II, nella sua fondamentale enciclica Dives in misericordia, che "sarebbe difficile non avvedersi che molto spesso i programmi che prendono avvio dall'idea di giustizia e che debbono servire alla sua attuazione nella convivenza degli uomini, dei gruppi e delle società umane, in pratica subiscono deformazioni. Benché essi continuino a richiamarsi alla medesima idea di giustizia, tuttavia l'esperienza dimostra che sulla giustizia hanno preso il sopravvento altre forze negative, quali il rancore, l'odio e persino la crudeltà" (n. 12). In effetti, l'esperienza del passato come quella del nostro tempo dimostrano che la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com'è ai limiti e ai condizionamenti personali o di gruppo, e dunque va esercitata e in un certo senso supportata dalla misericordia, che è la forma interiore dell'amore. Anzi, precisa sempre Giovanni Paolo II, diventa "più palese che l'amore si trasforma in misericordia quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e spesso troppo ristretta" (ibidem, n. 5).

Quella del rapporto tra giustizia e misericordia è una questione antica, che segna fin dalle origini lo svolgersi della civiltà occidentale. E che si è affacciata, puntualmente, tutte le volte che il pensiero ha tentato di mettere ordine tra polarità tendenzialmente avversarie, come tra libertà personale e ordine sociale, tra colpa e pena, tra recupero e riscatto. In questo sforzo speculativo così vivo nel mondo greco - da Socrate ad Aristotele e Platone - e in quello romano - da Cicerone a Seneca a Marco Aurelio - il cristianesimo si inserisce proponendo una sintesi audace, nuova pur accogliendo molti spunti della classicità, e che segnerà la storia successiva. Sintesi in cui l'ordo iustitiae e l'ordo amoris sono distinti e contemporaneamente si compenetrano profondamente tra loro.

Giustizia e misericordia, con l'annuncio cristiano, smettono definitivamente di essere alternative e diventano virtù che non solo si richiamano vicendevolmente, ma non possono più fare a meno l'una dell'altra. "La misericordia senza giustizia è madre della dissoluzione", dirà san Tommaso, aggiungendo che "la giustizia senza misericordia è crudeltà". Un rapporto simbiotico in cui però la dignità della persona è la bussola decisiva, deputata a conferire alla giustizia il suo vero dinamismo, il suo vero valore, spingendo la giustizia stessa verso mete sempre più alte che, trovando completamento nella misericordia, rendono il cammino dell'umanità sempre più confacente all'immagine di Dio impressa nel volto umano.

"Chi ama, rifiuta l'ingiustizia e la verità è la sua gioia" ammonisce san Paolo (1 Corinzi, 13, 6). La vera misericordia infatti domanda prima di tutto giustizia, base necessaria della vita sociale, dove deve regnare l'ordine del Bene. Chi vuole essere misericordioso deve anzitutto essere giusto e deve sentire riecheggiare dentro di sé quella "fame e sete di giustizia" di cui Gesù parla nel discorso della montagna. La misericordia deve produrre anzitutto la giustizia, se vuole compiere il suo vero corso. Per questo la misericordia non si oppone né creerà alibi alla giustizia, ma la contiene come sua espressione prima e come suo momento essenziale. Quindi, la ispira e la comanda, le dà anima e luce perché superi in meglio le proprie distinzioni rigide e formali.

Questa prospettiva trova la sua espressione più alta negli insegnamenti e nella vita stessa di Cristo. Il Signore, in numerosi passi del Vangelo, pur manifestando quello che oggi chiameremmo "rispetto delle istituzioni" e delle leggi dell'epoca, allo stesso tempo indica la via per una giustizia superiore, che oltrepassa quella angusta e psicologica, trasfigurandola. E lo fa fino all'ultimo respiro. Torturato, oltraggiato e messo in croce proprio dai rappresentanti della legge, viene implorato solo dal "ladrone", da un criminale. Ma sarà proprio il "ladrone" - forse un assassino - per quel suo gesto di umiltà e di pentimento, a meritare per primo il Paradiso. Realizzazione effettiva di quello che Gesù stesso aveva predetto a una casta che si riteneva per antonomasia onesta e osservante della legge - e formalmente lo era: "I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio" (Matteo, 21, 31).

Il mirabile equilibrio tra legge e amore, tra giustizia e misericordia, non è mai stato, dicevamo, un dato acquisito pacificamente. Piuttosto, è stato un depositum che la Chiesa ha cercato di conservare e riproporre continuamente alla luce delle acquisizioni del tempo, e di una sempre maggiore consapevolezza di sé che l'uomo va guadagnando attraverso le generazioni.

Pensiamo, per fare un nome, a sant'Agostino e a quella che è stata la monumentale elaborazione del De civitate Dei, dove il vescovo di Ippona mostra - in particolare nel capitolo XIX, sulla "vera giustizia" - con impareggiabile efficacia la profondità del rapporto fra giustizia e misericordia, che nella visione cristiana allude al mistero del rapporto fra Città dell'uomo e Città di Dio.

Ma per venire più direttamente a noi e ai nostri anni, è interessante notare come gli ultimi Pontefici abbiano voluto darci indicazioni preziose proprio su questo tema, incastonandole nel loro insegnamento più rimarchevole. Pensiamo a che cosa ha rappresentato, nel pontificato di Paolo VI, la prospettiva della "Civiltà dell'Amore", quale ideale di vita proprio di chi intende compenetrare verità e carità, giustizia e misericordia. O pensiamo ancora per un istante a quello che è stato il nuovo significato che Giovanni Paolo ii ha inteso dare proprio alla parola misericordia, il cui significato vero e profondo "non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure più penetrante e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o materiale. La misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta e promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e nell'uomo. Così intesa, essa costituisce il contenuto fondamentale del messaggio messianico di Cristo e la forza costitutiva della sua missione" (Dives in misericordia, n. 6). Non credo sia sbagliato dire che il Papa venuto dall'Est, conoscitore dei regimi gelidi e anti-umani che allora esistevano in quella parte del continente, abbia riabilitato la parola misericordia, sottraendola dal vocabolario pietistico, per consegnarla alla modernità come prospettiva convincente e plausibile.

Sulla stessa linea si pone anche Benedetto XVI, che ha intitolato significativamente un capitolo della sua prima enciclica, la Deus caritas est, proprio "Giustizia e carità". "Il giusto ordine della società e dello Stato - egli avverte - è compito centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe a una grande banda di ladri, come disse una volta Agostino", ricorda sempre il Papa (al n. 28 ). Per il quale, tuttavia, mai va dimenticato che "l'amore - caritas - sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore". Benedetto XVI fa presente come nel mondo, per quanto la politica faccia progredire a livelli sublimi la giustizia, ci sarà sempre sofferenza, ci sarà sempre solitudine, ci sarà sempre inadeguatezza rispetto alle attese del cuore umano. In altre parole, ci sarà sempre bisogno della carità che si traduce in condivisione e misericordia. "Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente, ogni uomo, ha bisogno: l'amorevole dedizione personale" (ibidem, n. 28 ). Non è questione dunque solo di interstizi da raggiungere e da coprire, ma di intelligenza e di finalizzazione dell'azione pubblica, nel suo porsi come atto di giustizia. La convinzione comune, secondo la quale strutture finalmente giuste renderebbero superfluo qualunque impeto di misericordia, nasconde, per il Papa, "una concezione materialistica dell'uomo: il pregiudizio secondo cui l'uomo vivrebbe "di solo pane" (Matteo, 4, 4) - convinzione che umilia l'uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano" (ivi).

Un richiamo, quest'ultimo, che suona particolarmente prezioso in un momento storico in cui si rischia di schiacciare l'esercizio della misericordia addosso alla Chiesa, illudendosi che lo Stato da solo, in base a una concezione prometeica della laicità, riesca a raggiungere la perfezione della giustizia. Sarebbe una fatale illusione. Giustizia e misericordia o camminano a braccetto, preparando l'una il passo all'altra, o entrambe zoppicano, annaspando nella nebbia.
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Messaggio  fra_saverio Mer Dic 03, 2008 12:01 pm

La misericordia vera forza della giustizia di Giovanni Maria Flick

Il luogo della giustizia è la vita collettiva, perché l'essere-altro, l'essere-separato, dall'altra parte, è ciò che distingue la giustizia, dall'amore, dove è abolita la distanza e gli individui non vengono a contrapporsi l'uno all'altro, quali separate altruità, come degli estranei.

Il giusfilosofo tedesco Josef Pieper ha scritto che "essere giusto vuol dire convalidare l'altro come tale, vuol dire insomma offrire il riconoscimento, là dove non è possibile l'amore. E la giustizia avverte, dal canto suo, che esiste un altro, il quale non è come me e tuttavia ha anche lui il diritto al suo". Dunque, la giustizia è la virtù che ci porta a riconoscere a ciascuno ciò che gli spetta, ciò che è suo.

Ma cosa significa "rendere il suo a ciascuno"? Padre Joseph de Finance, nella sua Etica generale, individua due significati di "suo". Il primo è quello tradizionale, di pronome possessivo, che designa una unità di possedente e di posseduto: quest'ultimo è riferito al primo come la parte al tutto, l'organo al vivente, lo strumento all'agente. In questo senso - scrive de Finance - si dirà che "ogni esistente "possiede" i suoi principi intrinseci: (...) essi sono i "suoi" perché maggiormente collegati al suo essere", senza i quali quell'individuo non potrebbe essere quello che è, senza dei quali non potrebbe esistere. Sotto questo aspetto, la giustizia rappresenta, per ciascun individuo, il suo dovuto, proprio per consentirgli di essere, unico e irripetibile.

Ma c'è anche un senso diverso di "suo", un senso riflessivo. In tale prospettiva, "suo" - quale riconoscimento basilare della giustizia - non è semplicemente ciò che è unito al soggetto mediante una relazione oggettiva di possesso, ma è piuttosto la coscienza e la consapevolezza di tale possesso: è un modo dell'essere sé, un'esperienza intrasoggettiva di ciò che si possiede o che si deve possedere. In questo senso, "rendere a ciascuno il suo" è anche rendere a ciascuno la coscienza di sé, dunque la libertà: aggiunge de Finance che "volere rendere a ciascuno ciò che è suo" è dunque in fondo, innanzitutto "volere che ciascuno sia sé stesso", cioè che sia libero.

Nell'ordine pratico, la prima manifestazione della giustizia - l'imprescindibile condizione del suo manifestarsi - è dunque la libertà. La volontà costante e perpetua di rendere a ciascuno il suo diritto è, innanzitutto, volontà costante di riconoscergli il diritto alla libertà, primo fondamento di ogni relazione tra gli uomini, pre-condizione dell'eguaglianza: quest'ultima - e con essa la virtù della giustizia chiamata a garantirne la realizzazione - non potrebbe neppure ipotizzarsi senza il riconoscimento della reciproca libertà. La relazione umana si struttura tra eguali - e può dunque configurarsi come "giusta" - solo se gli "eguali" sono, innanzitutto, egualmente liberi. Dunque, la giustizia è virtù fondata sulla costante autolimitazione, per garantire, innanzitutto, a ciascun altro di essere sé stesso, di essere libero.

Anche per la misericordia iniziamo dal tòpos, dal luogo, attraverso l'origine ebraica di ciò che oggi traduciamo con misericordia. Il termine con il quale l'Antico Testamento indica la misericordia è rehamim, che propriamente designa le "viscere", al singolare, in senso materno ventre. Dunque, a differenza della giustizia, che si struttura nella relazione, la misericordia si colloca, anche topograficamente, nell'antro più segreto della corporeità del singolo uomo.

Ovviamente, si tratta di un senso traslato, metaforico: serve, linguisticamente, a esprimere quel sentimento intimo, profondo e amoroso che lega due esseri per ragioni di sangue o di cuore, come la madre o il padre al proprio figlio o un fratello all'altro. Essendo questo legame riposto nella parte più intima dell'uomo - le viscere, appunto, come quando noi parliamo di amore sviscerato o di odio viscerale; ma in genere preferiamo il termine cuore - il sentimento che ne scaturisce è spontaneo e aperto a ogni forma di tenerezza.

La misericordia è, dunque, innanzitutto la irripetibile tenerezza della madre per il figlio, che continua a rimanere nelle sue viscere anche dopo il parto; o la profondità amorosa, incorruttibile dal tempo, che proviamo verso il nostro fratello di sangue, più giovane o anziano che sia. È, per il cristiano, la consapevolezza dell'amore infinito posto a base della nostra creazione. Essa muove - ha ben scritto il giovane prete sardo don Alessandro Simula - da un sentimento spontaneo, non da una deliberazione cosciente.

D'altra parte, della misericordia iniziale, Dio conserva memoria per gli uomini: a condizione che gli uomini siano fervidi nella speranza di riceverla, fino all'insistenza, fin quasi all'insolenza. Come Abramo allorquando apre la "trattativa" con il suo Signore per cercare di salvare Sodoma, con una intercessione sublime, che finisce per commuovere e fa tremare chi legge (e turba la legge). (...) Si salverà solo Lot, come sappiamo: ma Abramo insegna la compassione che dovremmo avere per i peccatori, e mostra con quanta intensità dovremmo pregare per loro, cioè per noi stessi.

Nella tradizione ebraica, che non ha ritenuto di far propria l'aurora della Croce, giustizia e misericordia si fronteggiano da sempre: persino nel nome della divinità.

Il Dio della misericordia subentra, nella tradizione ebraica, a quello della giustizia e del rigore. Ricorda Haim Baharier, anticonformista studioso della Torah e del Talmud, che - come insegnano alcuni maestri della Kabbalà, interpretando, sulla scia del Midràsh, il primo versetto della Genesi - Dio creò e distrusse venticinque volte ciò che aveva creato; alla ventiseiesima volta, creò una parola nuova, dai, in ebraico, che corrisponde al nostro basta - e finalmente contemplò l'opera del suo verbo.

L'atto della creazione è dunque il primo - nell'ordine temporale, ma anche in quello assiologico - atto di misericordia: si potrebbe dire, è ciò che fonda la misericordia futura tra tutti gli uomini. Anche a costo di annacquare la giustizia, mettendone in forse la sua perfezione, rischiando - e la cancellazione della scena delle precedenti venticinque creazioni ne è la conferma - un mondo claudicante.

La misericordia, nella sua prima epifania, è dunque un atto di ritrosia del perfetto rigore: un cedimento della giustizia, una rinuncia alla sua perfetta completezza per creare un mondo imperfetto e donarlo agli uomini. Da allora, da quest'atto fondativo, sarà sempre così: la misericordia sarà un atto di trasfigurazione della giustizia, un subentrare a essa, una sua sublimazione.

Sotto questo aspetto, la misericordia è la forza reale della giustizia. La misericordia intesa come clemenza, come esercizio clemente della giustizia è sintomo della vera forza di quest'ultima: un po' come il pianto è la vera forza del bambino inerme.

L'apostolo Paolo descrive in una frase la condizione per poter pensare al mistero della giustizia: in generale, direi, per poter pensare. La condizione - egualitaria quanto la morte - del peccato, che ci accomuna in una umanità diversissima in tutto il resto, ma parificata in questo; la misericordia, che egualmente ci solleva tutti, distribuendo amore infinito a tutti, senza distinzione. Al problema delle disuguaglianze del mondo, la prospettiva cristiana risponde che l'unica possibile eguaglianza - e anche la più importante - è ai punti estremi della nostra condizione umana: tutti uguali nella caduta; tutti uguali nell'amore che ci solleva. Così, la misericordia diviene la giustizia cui si unisce la carità: essa è il perfezionamento della giustizia, ma, al tempo stesso, il suo superamento.

Il pensiero paolino è chiarissimo sul punto: per rendersene conto è sufficiente rileggere uno dei passi più noti e intensi (e, letterariamente, più belli), quale l'Inno alla carità (1 Corinzi, 13, 1-13): "E se anche distribuisco tutte le mie sostanze, e se anche do il mio corpo per essere bruciato, ma non ho la carità, non mi giova a nulla. La carità è magnanima, è benigna la carità, non è invidiosa, la carità non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità; tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine...".

La giustizia, se non unita alla carità, resta imperfetta, monca: una dimensione regolativa che scivola, progressivamente, nel legalismo. La finitudine della giustizia, che risalta al cospetto della grandezza infinita della misericordia, è resa bene in due parabole evangeliche.

La prima è la parabola del debitore spietato (Matteo, 18, 23) nella quale il re scopre un servo debitore di diecimila talenti, ma recede, per le sue suppliche, dall'originario proposito di venderlo con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, affinché saldasse il suo debito. Appena uscito, quel servo ne trova un altro come lui che gli doveva cento denari. Lo afferra e lo soffoca, dicendogli di pagare il dovuto. Il debitore spietato non vuole esaudire le suppliche del suo compagno e lo fa gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Venutolo a sapere, il re lo fa richiamare e gli dice: "Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse avere anche tu pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?". E, sdegnato, "lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto".

Il comportamento del debitore spietato è, in punto di giustizia, ineccepibile: dal condono del suo debito non deriva affatto alcun obbligo, per lui, di condonare a sua volta. E, per averlo fatto gettare in carcere a causa dell'inadempimento, nessun giudice lo avrebbe a sua volta potuto condannare. A condannarlo è, invece, la clemente misericordia che gli è stata usata e che egli non è stato capace di interiorizzare: la misericordia arriva là dove la giustizia mai potrebbe, e lascia un segno che nessuna decisione di giustizia mai potrebbe lasciare. Il debitore spietato sceglie di scivolare nel legalismo e cade, tuttavia, a sua volta nella rete della giustizia: chi è stato con lui misericordioso era "al di là del bene e del male", ma il servo ha scelto di ripassare questo confine.

La seconda parabola è quella degli operai nella vigna (Matteo, 20, 1-16). Quale legge, quale principio di giustizia, potrebbe mai prevedere che lavori diversi, per durata, fatica e intensità, siano retribuiti allo stesso modo? E quale giudice mai potrebbe dar torto a quegli operai della mattina che, pensando di essere stati trattati ingiustamente, mormoravano contro il padrone: "Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo"!

Eppure, il padrone della vigna sa mettere in crisi lo stesso concetto umano di giustizia, fondata sulla scala ordinata dei valori e dei meriti ("Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi").

La misericordia, abbiamo detto, invece non presuppone meriti: li supera; evade la logica, come ogni vera grandezza dell'animo; di più, è autenticamente eversiva, nel senso etimologico di "fuori dal verso delle cose, dalla loro direzione ordinaria", come nessuna giustizia umana - nel nome della quale pure si sono intraprese centinaia di rivoluzioni - potrebbe mai esserlo.

L'imprevedibile gratuità della misericordia scardina completamente la limitata visione della mentalità umana e diventa pietra d'inciampo persino dei principi di giustizia. La giustizia di Dio non contrasta, in realtà, con la giustizia umana (ogni operaio della parabola riceve la retribuzione concordata), ma la trascende, completandola e trasformandola con l'amore.

Per il giurista che insegue quotidianamente la giustizia, la consapevolezza di questo superamento è una speranza intensa e irrinunciabile.
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abolire l’ergastolo? Empty Re: abolire l’ergastolo?

Messaggio  Fabio Mer Dic 03, 2008 5:09 pm

I testi inseriti da Fra Saverio sono veramente utili a far chiarezza su questo argomento così delicato.
Il legame tra misericordia e giustizia mette sempre in grande difficoltà che è chiamato in futuro ad amministrare la giustizia degli uomini, ma nello steso tempo crede nella giustizia di Dio.
L'ergastolo sembrerebbe, a prima vista, andare contro tutto ciò che ha scritto Fra Saverio sulla misericordia e sul perdono, e sembrerebbe andare contro anche a quella concezione di "reinserimento sociale" della pena indicata nella Costituzione Italiana.
In realtà, l'ergastolo non è propriamente "a vita" perchè ogni condannato può essere ammesso alla libertà condizionale dopo aver scontato almeno 26 anni di pena e qualora ne venga ritenuto attendibilmente provato il ravvedimento.
A questo possiamo aggiungere uno sconto per buona condotta di 45 giorni ogni 6 mesi di reclusione effettivamente subiti.
Questo sconto di pena "umana" ben si coniuga, a mio avviso, con l'esigenza di misericordia data, però, da un perdono che richiede, per essere considerato tale, la condizione essenziale della consapevolezza da parte del reo dello sbaglio commesso e del dolore causato alla vittima.
Questa consapevolezza dell'errore commesso può venire solo da un percorso di conversione al bene e riconoscimento del male che deve essere svolto nei tempi oportuni e con assistenti preparati.
Nel momento in cui non si vuole fare questo percorso (come gli utimi fatti di cronaca sui boss mafiosi che gestivano il racket dal carcere), è giusto che si rimanga in carcere per 2 motivi: il primo è che la vita umana và rispettata e tutelata, sia quella dei carcerati, ma anche quella di coloro che rischiano concretamente gravi ritorsioni per aver contribuito a far arrestare i criminali e quella di coloro che sono presi di mira da questi criminali; il secondo è che non ci può essere misericordia senza perdono e non ci può essere perdono senza la consapevolezza da parte del criminale del male che ha compiuto e, sopratutto, senza la volontà di non commettere più gesti contro la vita umana.
Fabio
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abolire l’ergastolo? Empty Re: abolire l’ergastolo?

Messaggio  Fabrizio Mer Dic 03, 2008 10:39 pm

Grazie Fra Saverio è Fabio per questi spunti di riflessione, sono pienamente d'accordo con te Fabio quando dici

Fabio ha scritto: il primo è che la vita umana và rispettata e tutelata, sia quella dei carcerati, ma anche quella di coloro che rischiano concretamente gravi ritorsioni per aver contribuito a far arrestare i criminali e quella di coloro che sono presi di mira da questi criminali;

ma non sul secondo punto quando dici

Fabio ha scritto: non ci può essere perdono senza la consapevolezza da parte del criminale del male che ha compiuto e, sopratutto, senza la volontà di non commettere più gesti contro la vita umana.

perché il perdono è come dice Fra Saverio:

Fra Saverio ha scritto: Il verbo «perdonare» deriva direttamente dal latino «per-donare» in cui la particella intensiva «per» indica il compimento. Il suo significato etimologico è quindi «donare completamente».
Ma che cosa viene donato completamente con il perdonare? La vendetta.

quindi perdonare e la misericordia è un qualcosa che parte da dentro di chi ha subito il gesto e va verso chi lo ha compiuto, ma soprattutto come dice Gesù (Mt 5, 43-48 )
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

ma è anche vero che nella Passione di Gesù

Fra Saverio ha scritto: Torturato, oltraggiato e messo in croce proprio dai rappresentanti della legge, viene implorato solo dal "ladrone", da un criminale. Ma sarà proprio il "ladrone" - forse un assassino - per quel suo gesto di umiltà e di pentimento, a meritare per primo il Paradiso. Realizzazione effettiva di quello che Gesù stesso aveva predetto a una casta che si riteneva per antonomasia onesta e osservante della legge - e formalmente lo era: "I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio" (Matteo, 21, 31).

il ladrone si è pentito, scratch quindi ha ragione Fabio quando dice che non c'è perdono senza la consapevolezza da parte del criminale del male che ha compiuto

Mi posso consolare

Fra Saverio ha scritto:Quella del rapporto tra giustizia e misericordia è una questione antica, che segna fin dalle origini lo svolgersi della civiltà occidentale. E che si è affacciata, puntualmente, tutte le volte che il pensiero ha tentato di mettere ordine tra polarità tendenzialmente avversarie, come tra libertà personale e ordine sociale, tra colpa e pena, tra recupero e riscatto. In questo sforzo speculativo così vivo nel mondo greco - da Socrate ad Aristotele e Platone - e in quello romano - da Cicerone a Seneca a Marco Aurelio - il cristianesimo si inserisce proponendo una sintesi audace, nuova pur accogliendo molti spunti della classicità, e che segnerà la storia successiva.

ma se devo impegnare a passare dal Vangelo alla Vita e dalla vita al Vangelo (Regola ofs 4) mi serve poco la consolazione con tutto il rispetto di questi illustri personaggi.

ancora tanta strada ho davanti, in questo argomento non sono pronto Sad
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abolire l’ergastolo? Empty Re: abolire l’ergastolo?

Messaggio  Fabio Mer Dic 03, 2008 11:01 pm

Forse questo ti potrà essere da consolazione Very Happy o cmq potrà essere ulteriore spunto di riflessione.
E' il Salmo 97, dove il salmista già mette in relazione la giustizia e l'amore (rettitudine):

1Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto prodigi.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

2Il Signore ha manifestato la sua salvezza,
agli occhi dei popoli ha rivelato la sua giustizia.
3Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa di Israele.
Tutti i confini della terra hanno veduto
la salvezza del nostro Dio.

4Acclami al Signore tutta la terra,
gridate, esultate con canti di gioia.
5Cantate inni al Signore con l'arpa,
con l'arpa e con suono melodioso;
6con la tromba e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore.

7Frema il mare e quanto racchiude,
il mondo e i suoi abitanti.
8I fiumi battano le mani,
esultino insieme le montagne
9davanti al Signore che viene,
che viene a giudicare la terra.
Giudicherà il mondo con giustizia
e i popoli con rettitudine.


Questo è quello che mi viene, a prima vista. Magari per una spiegazione più approfondita può aiutarci Fra Saverio.
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abolire l’ergastolo? Empty Re: abolire l’ergastolo?

Messaggio  sarah Mer Dic 03, 2008 11:24 pm

carissimo Fabrizio,
non abbatterti perché pensi di non essere pronto su questo argomento. fortunatamente la nostra fede non è qualcosa di statico ma è sempre in crescita e sicuramente o tramite il tuo cammino di fede o altro vedrai che il buon Dio ti metterà nelle condizioni di vivere il perdono e la misericordia.
su questo argomento molto delicato mi ritornano in mente delle parole che la mia madrina mi ripete sempre ogni volta ke gli confido degli episodi in particolare in cui ho ricevuto del male o parliamo del perdono essendo anche lei una super catechista!
lei mi dice sempre " MEGLIO SUBIRE UN TORTO CHE FARLO NOI AGLI ALTRI, PERCHE' ALMENO SE SI SUBISCE UN TORTO SI PUò SEMPRE PERDONARE E PREGARE PER COLUI CHE CI HA FATTO DEL MALE! "
sicuramente non è facile perdonare chi ha commesso dei grossi sbagli come quelli compiuti da chi si trova a pagarli in carcere ma credo inanzitutto che da Cristiani un grossissimo passo da fare sarebbe quello di non cadere nel Giudizio feroce di queste persone e soprattutto di non lasciarle da sole o emarginate dalla società.
sono perfettamente d'accordo con Fabio quando dice che occorre formare del personale specializzato che faccia capire al fratello in questione il suo errore e che lo aiuti ad intraprendere un percorso di conversione ( anche perchè soprattutto noi cristiani siamo chiamati anche a mettere in atto la correzione fraterna). Tutti noi possiamo cambiare e diventare delle persone migliori con l'aiuto di Gesù e ne abbiamo un esempio palese anche con lo stesso S. paolo che da perseguitore della Chiesa divenne annunciatore del vangelo di Cristo.
cmq se non sbaglio questo Venerdì o al più presto all'incontro del mio gruppo dovremmo affrontare Proprio la tematica del perdono spero di poter scrivere qualche intervento più dettagliato a riguardo Very Happy
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abolire l’ergastolo? Empty Perdono e Giustizia (3)

Messaggio  fra_saverio Gio Dic 04, 2008 10:28 am

Vorrei fare una sintesi velocissima, per non perderci in discussioni accademiche (che devono però essere fatte e approfondite, altrimenti come si può fare sintesi; che cosa sintetizzi?!).

Sia il Perdono che la Giustizia sono delle virtù, e come dice Francesco nel "Saluto alle Virtù", chi ne pssiede una le possiede tutte. Questo significa che una virtù non può escluderne un'altra. Il Perdono non può essere causa di ingiustizia, così come la Giustizia non può escludere il Perdono.
E', purtroppo, questa sintesi che noi facciamo fatica a comprendere. Il rischio è sempre quello di debordare da un lato (buonismo-perdonismo) o dall'altro (giustizialismo).
Come detto nel primo intervento, il Perdono deve essere inscritto in un contesto di Giustizia, e la Giustizia deve portare ad un contesto sociale ed ecclesiale di Perdono pieno e liberatorio (per la persona che lo dona e per chi lo riceve).

Infine, per non scadere in spiritualismi vuoti: quando Gesù viene schiaffeggiato dal soldato romano (Lui che aveva detto di porgere l'altra guancia!), si volta verso il soldato e gli dice: Se ho fatto male dimmi dove è il male che avrei commesso; ma se non ho fatto male, perché mi schiaffeggi?
Perciò i nostri sentimenti cristiani sull'esercizio del Perdono e della Carità, non possono e non devono lasciar spazio all'ingiustizia.
Un certo modo di presentare il Perdono cristiano, che vuole fare a meno della Giustizia, porta oggi in molti ad escuderlo a priori.
Il cristiano è misericordioso e giusto e cerca, nelle vie permesse anche dalle leggi democratiche e che non sono contrarie a quella divina (vedi la pena di morte), di stabilire percorsi di giustizia che ripaghino, in una certa qual misura, il danno commesso nei confronti della persona che lo ha ricevuto e della società.

Attenzione! La stessa dinamica l'abbiamo nel Sacramento della Riconciliazione! che erroneamente viene considerato "l'inceneritore" delle nostre malefatte.
Il sacramento restituisce la dignità di figli di Dio a coloro che lo ricevono, ma ci sono delle condizioni perché questo avvenga (= non basta la formula assolutoria del sacerdote!):
- pentimento
- atto di riparazione (la famosa "penitenza" che non può e non deve essere la preghiera!, tranne che nei peccati lievi).
L'atto di riparazione, come dice la parola, deve appunto "riparare" umanamente e personalmente al danno commesso.
Quindi, anche nel sacramento della riconciliazione vale il detto "chi rompe paga e i cocci son suoi!". E, siccome non sempre riusciamo a riparare "di fatto" i cocci dei nostri peccati, la dottrina del sacramento ci ricorda che comunque saremo chiamati a farlo: o in questa vita con il sacrificio e le sofferenze, o in quella eterna con il Purgatorio.
In questo contesto si inserisce la famosa "Indulgenza Plenaria". Essa non assolve dai peccati (questo lo fa il Sacramento), bensì "condona la pena", cioè ci libera dalla riparazione del danno, sia in questa vita che in quella eterna. Questa è la forma più alta di Perdono e di Giustizia che Dio esercita con noi. Il penitente, consapevole del proprio peccato e del danno commesso, pentito profondamente e disposto a pagare per il danno, viene da Dio e dalla Chiesa liberato con un condono pieno.

Infine: il Perdono sacramentale (così come le altre forme di perdono, come accennato nel primo intervento) è sempre un fatto ecclesiale. Noi siamo "membra del corpo di Cristo che è la Chiesa", pertanto quando, per il peccato, ci separiamo da Cristo ci separiamo anche dal resto del corpo. Pertanto la richiesta di perdono non è mai solo nei confronti di Dio ma anche dei fratelli (confesso a Dio e a voi fratelli... e chiedo a voi fratelli di pregare...).
Il Perdono, anche quello non sacramentale, è sempre un fatto "sociale" e pertanto esige una "norma" sociale di reintegrazione della persona che noi chiamiamo "Giustizia".

PAX
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abolire l’ergastolo? Empty Re: abolire l’ergastolo?

Messaggio  Fabrizio Gio Dic 04, 2008 4:58 pm

grazie fra Saverio non è mia intenzione fare discorsi accademici (anche perché non sono all'altezza) ma solo cercare di riuscire a fare la volontà di Nostro Signore, l'unica cosa che mi viene in mente è:

O alto e glorioso Dio,
illumina le tenebre
del cuore mio.
Dammi una fede retta,
speranza certa,
carità perfetta
e umiltà profonda.
Dammi, Signore,
senno e discernimento
per compiere la tua vera
e santa volontà.
Amen.
Fabrizio
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