Parrocchia San Francesco d'Assisi
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I PRETI E NOI

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Messaggio  Fabio Lun Mag 12, 2008 3:32 pm

In un'ottica di confronto e di crescita basato sul rapporto tra religiosità e laicità e sulla consapevolezza dell'importanza dell'integrazione di ambedue le sfere, voglio sottoporre alla vostra attenzione una serie di riflessioni fatte da Vittorino Andreoli, bravissimo studioso della mente umana, noto in tutto il mondo per i suoi studi sulla creatività e sul comportamento criminale.
La riflessione di Andreoli si divide in undici parti, ognuna trattante una tematica specifica.Questa è la prima parte, le altre le pubblicherò successivamente.
Aspetto commenti e spunti di riflessione!
Buona lettura!
Fabio

I PRETI E NOI
di Vittorino Andreoli

Inizia una riflessione sulla figura del prete: ma non in sé, quanto in rapporto a noi, in rapporto alla società in cui egli vive. Ovvio infatti che per parlare del sacerdote come tale, ci sono competenze e responsabilità precise. Noi invece vogliamo socializzare il discorso, includerci, considerare il profilo del sacerdote nei risvolti che ci riguardano. È il professor Andreoli stesso, grande studioso della psiche, e oggi acuto osservatore di fenomeni culturali, a precisare: «Non sono credente, ma voglio bene ai preti. Tutti devono voler loro bene. Sono figure importanti per tutti. E io voglio che siano felici». Questa è la chiave di interpretazione dell’iniziativa che oggi parte, e sulla quale ci auguriamo un confronto ampio.

Inizia il «viaggio»
Il sacerdote e il sacro
Un personaggio della nostra società
Il sacerdote è un personaggio della nostra società. Figura che ha una sua lunga storia nella nostra cultura, e che ha assolto compiti diversamente riconosciuti, sovente anche contrastati. Profilo che è cambiato, perché è cambiato il contesto in cui si pone. Così, pur perseguendo sempre lo stesso obiettivo, legato al ruolo che ricopre, l’ambiente in cui vive lo ha in parte modificato, mutando anche la forma esteriore con cui egli si presenta al popolo. Dalla veste talare lunga e nera, con berretta a punte e pompon o cappello rigido a larghe tese, lo si vede talora in abito "borghese", in jeans e shirts, non più identificabile o immediatamente riconoscibile. E questo lo ha fatto per nascondersi, quando la sua missione, contrastata, doveva svolgersi in maniera clandestina; oppure per la convinzione che dovesse essere notato non tanto per l’abito quanto per il suo modo di essere e per il suo comportamento, invertendo il detto popolare che è l’abito a fare il monaco.

È un personaggio colto, perché il raggiungimento della sua posizione comporta studi severi e una lunga preparazione, ma a distinguerlo non è il sapere, bensì il ruolo, che ha un’origine nel mistero, una vera consacrazione. Ciononostante, ci sono stati periodi in cui il suo sapere ne ha caratterizzato il ruolo e la maniera di essere percepito, soprattutto in situazioni di istruzione sociale carente, come nel nostro passato storico. Rimane indubitabile che la sua vera caratteristica e funzione è tuttavia una e una sola, e si lega a un ministero che egli acquisisce attraverso il conferimento dell’Ordine, che gli conferisce il munus sacerdotalis. Insomma, è una persona che si inserisce nel mistero, e quindi dentro un credo.

Il mio interesse

E qui subito si accede all’analisi della sua figura per noi, anche se occorre che io mi chieda perché abbia scelto di farlo. E dica quali sono le motivazioni che, almeno consapevolmente, mi hanno indotto a farlo, in via del tutto libera.

Innanzitutto il rispetto. È questo un atteggiamento che io sento sempre di fronte all’uomo, a ogni uomo. Ho rispetto per tutti, per l’uomo "rotto", per gli adolescenti che hanno compiuto azioni riprovevoli e inaccettabili, per i malati di mente a cui ho dedicato e dedico la maggiore attenzione; ho rispetto per ogni uomo, anche se possiede caratteristiche diverse dalle mie.
In secondo luogo, la curiosità. La curiosità per una scelta esistenziale che è "strana" e coraggiosa, almeno per questo nostro tempo, in cui si persegue – ormai quasi inconsapevolmente – il successo, il bisogno di una identificazione che sia sempre ammantata di potere, conquistato o rubato. Un potere che nulla ha a che fare con l’autorevolezza e con il valore, e che anzi sembra porsi su coordinate contrapposte, fino a portare a dire che per il potere serve più la stupidità che l’autorevolezza o il merito. Il sacerdote, invece del potere, sceglie la povertà; invece dell’affermazione del proprio Io, che si fonda anche sulla sessualità come dominio, sceglie la castità; e invece della libertà, che nel nostro tempo significa licenza, egli sceglie l’obbedienza. E non si tratta di scelte implicite, ma espresse attraverso una rinuncia consapevole et coram populo, mediante la formula dell’impegno vincolante.

Un’altra motivazione deriva certamente dalla mia professione di psichiatra, di chi si interroga sempre su come un uomo viva dentro la società e se i bisogni che si definiscono umani vengano raggiunti o siano frustrati.
Per esprimere questa mia forza motrice in maniera sintetica, e sapendo che i sacerdoti devono rispondere al vescovo che è il capo della Chiesa locale in cui esercitano la propria missione, mi pare di poter dire che se il vescovo vuole che i suoi sacerdoti siano santi, io da psichiatra vorrei che fossero sereni e, almeno alcune volte, felici.

Le condizioni sociali
La mia attenzione cioè è rivolta alle condizioni sociali del sacerdozio, poiché sono i prolegomeni alla serenità e alla felicità . E mi chiedo se la vita del sacerdote non sia invece una lotta di resistenza alle frustrazioni che descriverebbe una sorta di masochista, anche se crede che proprio nella rinuncia al mondo si giunga alla felicità. Se così fosse, allora la mia curiosità come psichiatra crescerebbe potentemente, perché mi troverei di fronte a un uomo che fa scelte-limite, e persino contrarie a ogni teoria psicologica e di equilibrio della personalità. Insomma, se il prete con le sue rinunce è felice, allora devo rivedere tutta la mia adesione alla psicologia; se è un infelice, allora dovrei chiedermi se la sua missione sia possibile e con quali esiti.

In questo àmbito, devo ricordare storie di sacerdoti che hanno avuto o hanno una dimensione psichiatrica (e di alcuni mi sono occupato professionalmente), storie di cui parla sovente la cronaca, inaccettabili perché non rispettano i bambini, abusandone, oppure intrattengono comportamenti che stridono con il ruolo assunto e che la società si attende.

Da ultimo devo riferire di una motivazione personale che io considero molto importante perché dà il clima a questa iniziativa. Non potrei parlare della mia infanzia e adolescenza senza parlare di qualche sacerdote che ha fatto parte dell’habitat umano nel periodo in cui si è svolta la mia crescita. Quando la mia memoria vaga tra i ricordi di allora, vedo l’ombra di curati e di monsignori che hanno svolto un ruolo straordinario e fondamentale per la mia vita. Non potrei parlare di mio padre, di mia madre, di mia sorella, che mi porto dentro, sepolti nel mio ricordo, se non parlassi del loro comportamento nei confronti della Chiesa, mediato dal legame con i suoi sacerdoti. Ecco, forse devo esprimerlo chiaramente con le parole dei sentimenti: io li amo per tutto questo. Sì, e non sono credente.

Il sacerdote visto da un non credente

E me la sono posta, la domanda: possiedo io le caratteristiche per arrogarmi questo diritto a parlare? Non sarò uno che affronta un tema senza averne gli strumenti, non diversamente da come agirei se domani mattina entrassi in sala operatoria e cominciassi un intervento chirurgico per il quale, pur essendo medico, non sono preparato, non possedendo nemmeno gli strumenti? E gli strumenti in questo caso non saranno la fede e il credere, mentre io sono un non credente?

Penso di poter sostenere, almeno per la mia esperienza, che si può amare anche chi non appartiene al proprio mondo. E penso pure che, se uno non crede, può dire che il sacerdote non gli serve, allo stesso modo per cui non gli serve l’idraulico se l’impianto di riscaldamento funziona, o non ha bisogno del dentista se ha i denti sani. Ma ciò non toglie tuttavia che si possa avere stima, e persino amare una professione, come quella dell’idraulico o dell’odontoiatra, o per l’appunto del sacerdote.

Il non credente non prova fastidio verso i credenti, alla maniera dell’ateo che li considera degli illusi quando non degli stupidi perché si affidano a false verità e vivono di errori. I non credenti sono persone che non hanno avuto un incontro personale con il Signore, di cui il sacerdote è seguace ed esempio. La fede è un dono e si lega all’incontro tra Dio e una persona, e la grandezza del cristianesimo è stata nel portare la dimensione del legame di Dio non più con un popolo eletto ma con ciascun uomo, grazie a un incontro tra il singolo uomo e Dio stesso. Insomma, è la soluzione del Dio personale. Ebbene, quell’incontro nel non credente non è avvenuto, ma ci potrà essere. E come diceva Pascal: «Non basta voler credere per credere», occorre l’esperienza. Certo la differenza tra uno che crede e uno che non crede è enorme, ma la distanza temporale può essere di solo un secondo e quella di luogo, addirittura una vicinanza.

Credere, un bisogno dell’uomo
Ma dev’essere anche chiaro che il credere, prima che un’esigenza indotta da una religione, è un bisogno dell’uomo. Il bisogno di credere è umano, è di questa terra. È semmai la risposta specifica, di quel credo, di quella religione che lega al cielo e magari proviene dal cielo.

Non penso, dunque, che la mancanza di appartenenza a una fede, che significa anche la mancanza di relazione con il sacerdote nelle sue funzioni sacre, tolga la possibilità di guardarlo e di cercare di capirlo.

Essendomi dedicato per molti anni alla ricerca scientifica, e quindi all’analisi di alcuni problemi biologici – e il mio interesse era rivolto al cervello – ho imparato che ogni risultato e affermazione hanno valore entro la metodologia che si è applicata per rilevarli e quindi dentro i limiti che tale metodologia ha imposto. Ma ho imparato anche che i risultati conseguiti sovente non solo sono utili, ma pur nella loro parzialità sono straordinariamente importanti: penso alla medicina, a cui le mie ricerche erano rivolte.
Insomma, terra e cielo si toccano.
Colui che «fa» il sacro
Sacerdote è la combinazione di sacer (che significa sacro) e di dho-ts (che vuol dire fare, colui che fa), dunque etimologicamente significa «colui che compie cerimonie sacre». Il fare va proprio inteso come fare il sacro; e in questo senso è meno aderente, alla radice linguistica, la definizione di sacerdote come «colui che amministra le cose sacre».

Io lo intendo proprio come chi fa, opera. Se si guardano altre parole con la stessa radice si trova sacrare nel senso di rendere sacro, e anche sacertà come carattere sacro. Insomma, sacerdote si coniuga con sacro e quindi si impone un riferimento al sacro.
Sono molto legato a una definizione che ne ha dato un antropologo, Rudolf Otto, nel 1917, che ha dedicato uno studio al tema, Il sacro. Egli sostiene che si tratta di una categoria della mente umana, intesa proprio nel senso usato da Immanuel Kant: una forma della mente per percepire il mondo e quindi anche per condizionarne la sua conoscenza. Esiste la categoria della ragione, con il principio di non contraddizione, che rappresenta la modalità per vedere il mondo sub specie rationale.

Otto afferma che l’uomo possiede una struttura mentale che gli permette di percepire anche il mondo non sperimentabile, quella parte che si definisce il nouminosum e che ha la caratteristica non del chiaro e distinto, ma del fascinoso, e quindi di attirare e nel contempo di spaventare. Insomma, il sacro è la categoria della mente che permette di avvicinarsi al mistero, ciò che non è riducibile esclusivamente a ragione, ma che appunto entra nella comprensione anche dei sentimenti, e di uno in particolare: quello capace di attrarre e spaventare.

Il mistero, dimensione dell’umano

E’ straordinaria questa intuizione poiché mette nella configurazione della mente, che sottostà a un’anatomia del cervello, una capacità fissata nella storia dell’uomo: quella di capire il mistero, come se il mistero fosse una componente necessaria, obbligata, dell’esperienza umana, e come se fosse altro rispetto alla pura ragione, nel senso almeno che appartengono a due domini, a due bisogni distinti.

Ed è proprio così, poiché nell’esperienza umana ci sono temi che si prestano alla comprensione razionale, che ha bisogno della sequenzialità, del poter rimandare a temi da indagare, e quindi che si prestano a soluzioni non immediate, e altri che invece necessitano di risposte immediate in sé concluse. Quando noi ci troviamo in una esperienza di paura non serve capire razionalmente o scientificamente che cosa sia il terrore, ma serve essere rassicurati, e allora vale più un abbraccio di una trattazione di psicologia.

Ci sono poi temi in cui il numinoso si attiva subito: la morte che ci interroga drammaticamente sulla fine, la nascita che ci pone la questione del perché l’essere invece del nulla, il male che colpisce un bambino e verso il quale ci si sente impotenti, anche coloro che dovrebbero proteggerne l’esistenza.

Rudolf Otto dice dunque che il sacro è una categoria della mente che esprime il bisogno di avere una risposta immediata, senza rimandare ad altro come sovente accade per la scienza o il ragionamento .

Sacro e religioso
Da questo richiamo si pone una distinzione netta tra sacro e religioso. Religioso significa legame (da religio), ed è bellissimo poiché il legame ha una funzione di rassicurazione. I sentimenti sono i legami che una persona stabilisce con un’altra, e nel legame si seda la paura.

Ebbene, la religione è la risposta ai bisogni del sacro. Dunque, il sacro è umanissimo, ed è esperienza di questa terra; e la religione è la risposta totale, senza dubbi, senza rimandi, affermata persino da un’autorità che ha il nome di Dio, dell’Assoluto.
Il sacerdote dunque è, dal mio punto di vista, un uomo religioso che dà risposte – attraverso gesti, liturgie, cerimonie – ai bisogni del sacro che ogni uomo prova.

Se il sacro è una funzione della mente, e dell’essere uomo, e una caratteristica potremmo dire della sua biologia, allora si capisce bene perché a proposito del sacerdote si parla anche di una funzione sociale, ossia di un livello squisitamente terreno della sua funzione.
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I PRETI E NOI Empty Seconda Parte: La Vocazione

Messaggio  Fabio Mar Mag 20, 2008 3:51 pm

Seconda puntata

La vocazione


La vocazione ordinaria

Ogni professione richiede di valorizzare le qualità di ciascuno, le sue disposizioni attitudinali, e la precisa volontà di dedicarsi al campo prescelto.

Vocazione viene da vocare, che significa chiamare, invocare. La vocazione dunque è una chiamata, talora addirittura un’invocazione a dedicarsi a un ruolo sociale, una volta verificate la capacità e la disposizione a svolgerlo. Un riferimento, questo, che suona oggi stonato, se si pensa a come vanno le cose nel nostro tempo, nel quale il lavoro si lega piuttosto alle circostanze, a una combinazione del tutto casuale di eventi o di incontri. È triste, come pure mi è capitato, andare in taxi da Fiumicino al centro di Roma, accompagnato da un giovane tassista che racconta di essere un laureato in filosofia teoretica; oppure trovarsi a pagare il pedaggio autostradale a una persona che confessa d’essere un ingegnere edile. Un vero dolore, che mostra lo spreco di una società che prima mette a disposizione strutture e mezzi, peraltro limitati e in ambienti non certo ideali, per raggiungere delle competenze, e poi si dimentica di programmare un’accoglienza proporzionata a quell’esito.

Mala tempora quando non si riesce a combinare le doti individuali (talenti) con la preparazione e i bisogni sociali, consentendo così ai singoli la soddisfazione che meritano per essersi impegnati nel conseguimento di una precisa professionalità.
Eppure, la vocazione necessita di una cornice di grande rilievo.
Occorre che ciascuno abbia consapevolezza delle proprie capacità, che non sono sempre evidenti, ma possono emergere durante un processo educativo in cui il singolo scopre quali funzioni riesce a svolgere bene, provando piacere nell’eseguirle. Del resto proprio a questo scopo si sono sviluppate tecniche di ricerca dei talenti e di orientamento nella loro applicazione sociale, avendo presente il quadro non solo delle professioni in atto ma anche di quelle che il mercato del lavoro riesce appena a intravedere, all’interno di una società mobile e in forte cambiamento.

Talora la propensione è evidente: è il caso di una persona che sa disegnare o dipingere, oppure ha un senso musicale spiccato, o una disposizione alla matematica e alle scienze fisiche piuttosto che una tendenza alla meditazione e alla elaborazione concettuale del pensiero, e quindi ad attività astratte. Ma è altrettanto vero che non sempre questo segnale di disposizione si lega alla felicità di una persona, che magari la esperisce in un agire più faticoso e impegnativo rispetto al mestiere "naturale". E il piacere è molto importante, è una dimensione che va sempre tenuta presente.
Occorre stare attenti a non illudersi, a non sentire il fascino della professione del proprio padre o di una persona amata, il mestiere scelto dall’amico fidato, perché si tratterebbe di spinte emotive che sono strumentali: si fondano sulla voglia di stare con qualcuno o di continuare una certa storia che una professione diversa invece interromperebbe.

In un recente passato si era data molta importanza ai test attitudinali, che però si sono dimostrati troppo superficiali. Questo non significa affidarsi allora al caso, che sarebbe un errore antitetico. Bisogna invece stare bene attenti a un processo complesso, che va valutato da parte del soggetto e dai suoi educatori in maniera continuativa, così da far emergere gli elementi utili per capire se questi possa trovarsi a proprio agio in un dato ambiente sociale. Sta qui il senso dell’adattamento del singolo all’ambiente di cui parla Charles Darwin, e che non va inteso in senso passivo ma, al contrario, come legame soddisfacente e dunque gratificante dell’attività del singolo in una data comunità.

Nel tema generale dell’adattamento si inseriscono anche i disturbi mentali e comportamentali, che sono da intendersi come la difficoltà di un soggetto a stare in società, e quindi come reazione a cercare di sopravvivervi, con maniere idonee a evitare le possibili frustrazioni. Se uno si sente fortemente insicuro tende a diminuire i contatti sociali, a ossessivizzarli, ripetendoli, evitando nuove esperienze che gli si configurano sempre minacciose. Allo stesso meccanismo si lega la depressione, che è una vera fuga dalla società nella quale ci si sente inadeguati, fino a convincersi di non essere compatibili con il vivere comunitario. Ma anche la schizofrenia, che è una frattura dell’Io o una sua frammentazione, ha il significato di una rottura di quella unità, essendo l’individuo in grado di stare all’interno della società ma ignorandola.

Insomma, la vocazione ordinaria è di grandissima importanza per ciascuno di noi. Ovvio che lo sia ancor più per il sacerdote, che rappresenta una condizione tutta diversa dalle altre professioni.


La vocazione sacerdotale


Se il significato della vocazione ordinaria è già quello di una chiamata, tanto più lo è quella del sacerdote: e infatti si parla di chiamata da parte del Signore a servirlo per la salvezza dell’uomo. Chiamata a una missione che ha come obiettivo il raggiungimento pieno della felicità non in questo mondo, ma nell’altro, in cielo.
Non intendo lambire il senso profondo di questa affermazione, ma è opportuno chiarire che nel caso della vocazione sacerdotale si tratta di qualcosa che si aggiunge e si specifica, ma non nega nulla di quanto si è detto per la vocazione ordinaria. Al di là infatti del suo senso proprio, la vocazione sacerdotale rimane un’attività dell’uomo in mezzo agli altri uomini, per cui risente delle caratteristiche personali come dell’atteggiamento della struttura sociale. Con ciò non intendo dal mio punto di vista escludere pregiudizialmente qualcuno dalla scelta di diventare sacerdote; del resto basterebbe guardare ai santi per accorgersi di quanto siano tra loro diversi sul piano delle caratteristiche fisiche, della personalità e dell’appartenenza sociale.
Avendo diretto a lungo una divisione clinica, mi sono reso conto che c’erano medici che facevano ugualmente bene il loro lavoro pur con personalità e disposizioni differenti e talora contrapposte. E dunque che la fatica per raggiungere il comune obiettivo era evidentemente diversa. Immagino – ma qui ho una minore esperienza – che qualcosa del genere si possa dire anche per chi aspira al sacerdozio.

Torno su un concetto già espresso, e che ritroveremo ancora: quello della serenità e della felicità. Ho conosciuto sacerdoti che manifestano questi atteggiamenti anche in momenti obiettivamente difficili, e altri che rivelano uno stato di ansia, di preoccupazione continua, e temono sempre di non farcela. Ebbene, questo, dal mio punto di vista, è il vero test di adeguamento a un determinato ruolo sociale.

Mi spiego, rifacendomi a quanto si dice parlando della fede intesa come incontro "personale" del singolo uomo con Dio. Questa d’altra parte è la caratteristica del cristianesimo. Non è sufficiente conoscere la rivelazione storica, avere letto tutti i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento; certo, questo serve, ma non è ancora fede. La fede sta nell’incontro, cioè nel Dio che si manifesta al singolo uomo. E questo incontro trasforma un non-credente nel credente. Mi piace sottolineare che il non-credente, a differenza dell’ateo, potrebbe anche essere pronto ad accogliere il Signore, ma bisogna che questi si riveli. Il che è un puro dono.

Io trovo bellissimo che la fede sia legata a un’esperienza precisa, per quanto singolare e indicibile, dal momento che essa per un verso pesca nel mistero, e dunque nel sacro.
Va da sé che questo incontro dev’esserci stato a un certo punto nella vita di chi vuol diventare sacerdote. Ma di per sé non è ancora la chiamata, tant’è vero che non tutti gli uomini con fede hanno la vocazione a diventare sacerdoti. Occorre per questo che quel Dio di Gesù Cristo, che è insieme il Dio personale, abbia invitato a seguirlo, e a seguirlo in maniera speciale. Quella del ruolo sacerdotale è una chiamata di dedizione esclusiva, è un invito d’amore che sottrae da altre possibilità di amare.

E capisco perfettamente che si tratta di un legame ben più profondo rispetto a quello di una presenza comune, perché richiede una dedizione totale. E allora è chiaro che un sacerdote non può essere al contempo come uno che ha abbracciato una qualsiasi altra professione.

Trovo veramente strano che talora si voglia ridurre il sacerdote alla stregua di uno che è preso da una serie di preoccupazioni legate a una propria famiglia, a un proprio lavoro. Si tratta, per lui, di una vita qualitativamente diversa, intensamente diversa, ma non una vita doppia, intesa come somma di esperienze. E se uno soltanto capisce cosa voglia dire una chiamata a "lasciare tutto" e a seguirLo, trova assurde le ipotesi del prete sposato con famiglia, del prete manager o anche soltanto macellaio. Un ruolo – quello del prete – che si fonda certo su alcune caratteristiche proprie, ma anche su un legame speciale con Dio, che non è il direttore generale di una grande azienda, bensì – appunto – Dio. Uno può negarlo nella propria vita ma non negare che esista nella vita di un sacerdote, il quale ha inforcato la sua missione rispondendo a una chiamata che viene da Dio direttamente.

Certo, c’è anche la posizione dell’ateo, che nega il sacerdozio perché nega Dio e ritiene che chiunque vi creda sia un minus habens o un infatuato che vive di illusioni. Ma non è questa la mia posizione, pur non avendo io incontrato il Signore, e dunque non avendo io ricevuto alcun invito alla sequela, credo che ciò possa essere accaduto ad altri, perché ho rispetto dell’altro e non mi sento di dire che ciò che io non ho vissuto non solo non esiste ma non può neppure esistere. Non sono mai stato a Bali e non ho certo in programma di andarci, ma sono sicuro che Bali c’è, anche se ritengo che sia un luogo abbastanza al di fuori della mia esperienza da non desiderare affatto di andarci.

La vocazione sacerdotale è una vocazione come tutte le altre, se la si considera nella dimensione dell’incontro tra le disposizioni personali e le esigenze della società, ma in più è una chiamata speciale che proviene da un incontro personale con Dio, che è oltre quello che si attua per credere. Certo, occorre credere, e quindi avere incontrato il Dio che c’è, ma si tratta anche di seguirlo.
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Messaggio  eustochia Gio Mag 22, 2008 1:24 pm

POTRESTI ,PER FAVORE DIRMI COSA VUOL DIRE MINUS HABENS? E' BELLO QUELLO CHE HAI SCRITTO ,SOLTANTO CHE NON HO CAPITO COSA VUOL DIRE QUESTA PAROLA, TI TROVO MOLTO PREPARATO , study

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Messaggio  Fabio Gio Mag 22, 2008 1:34 pm

Grazie Eustochia per il complimento, ma non è farina del mio sacco. Questa è una riflessione di Vittorino Andreoli sul rapporto tra Laico e Religioso. Magari sapessi scrivere anch'io rilessioni di questo spessore! Very Happy

Minus Habens vuol dire "che ha meno" e viene utilizzato come sostantivo per indicare chi ha scarse doti intellettuali.
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Messaggio  eustochia Gio Mag 22, 2008 1:41 pm

QUINDI NON SEI NEMMENO TU CHE SCRIVI ,QUANDO DICI CHE NON HAI MAI INCONTRATO IL SIGNORE, VERO?, MI ERA SEMBRATO STRANO ,GRAZIE FRATELLINO FABIO SETTIMO , COME SEMPRE SEI PREMUROSO , VERSO TUTTI COLORO CHIEDONO E FANNO DELLE DOMANDE. HAI SAPUTO LA NOVITA' SUI GELATI DI PEPPE VERO? ANCHE LUI E' D'ORO, E VEDI CHE NON SONO DI PARTE Rolling Eyes

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Messaggio  Fabio Ven Giu 06, 2008 11:11 am

Terza puntata


Il seminarista


Una premessa

Se si vuole comprendere il valore di un qualsiasi professionista, è utile, forse addirittura indispensabile, conoscere le scuole che ha frequentato, e sapere quindi quale sia stato il suo effettivo percorso formativo. Da quel momento, per misurare le sue reali capacità, si dovranno aggiungere l’esperienza pratica e la formazione permanente. Quest’ultima gli permetterà di aggiornarsi sulle nuove conoscenze legate allo sviluppo intrinseco della sua disciplina e ai cambiamenti della società, che pone sempre nuove domande.
Questa stessa esigenza si avverte per il sacerdote, pur se la sua è una situazione del tutto particolare, che proprio per questo necessita di istituzioni formative adatte allo scopo. Se per tutti i cittadini i criteri e i luoghi sono decretati dal Ministero della Pubblica istruzione, per la formazione del sacerdote essi sono previsti dapprima dalla Chiesa universale, che fornisce i lineamenti generali, quindi dalle Conferenze episcopali nazionali, che elaborano gli adattamenti locali. Ferma restando la competenza propria di ogni vescovo, che è il primo moderatore del suo seminario e il primo responsabile nella formazione permanente del clero. Il seminario, si sa, è un’istituzione diocesana, ma in certi casi può anche essere interdiocesana o regionale.

Dal che si capisce perché, volendo parlare del sacerdote come figura della società attuale, si debba partire dal seminarista, che è, in un certo senso, un sacerdote in fieri; anche se la sua crescita va seguita e rispettata in sé, quale che sia lo sbocco concreto della sua vocazione. Per questo ci soffermiamo a capire come funziona un seminario. E per coglierlo con esattezza, è opportuno riferirsi alle norme emanate dalla Conferenza episcopale italiana. La tentazione di parlare dei seminari per quello che ciascuno di noi conosce, o crede di conoscere, deve essere vinta infatti dalla necessità di riferimenti precisi, e in qualche modo ufficiali.
Il documento a cui bisogna oggi riferirsi si intitola:

La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana: orientamenti e norme per i seminari, promulgato il 4 novembre 2006. Si tratta della terza edizione di un testo pubblicato dapprima nel 1972 e quindi nel 1980. Uno sforzo di adattamento che nel corso del Concilio Vaticano II è stato raccomandato con il documento Optatam totius (al n.1), dove si dice: «di adattare periodicamente i principi generali della formazione presbiterale alle particolari circostanze di tempo e luogo, in modo che essi risultino sempre conformi alle necessità pastorali delle regioni in cui dovrà svolgersi il ministero dei presbiteri» (Optatam totius, 1). Quanto al testo Cei, bisogna dire «che, in continuità con le due precedenti edizioni della ratio institutionis sacerdotalis, ha cercato di recepire le nuove domande poste dal mondo giovanile, di prestare attenzione al mutato contesto culturale ed ecclesiale…» (La formazione dei presbiteri… – Presentazione, 1).

Innanzitutto una precisazione di ordine lessicale: il documento parla di presbitero, noi qui usiamo prevalentemente il termine sacerdote e po’ anche la parola prete, che è di uso la più popolare. Il presbiterato, si sa, è un grado del sacramento dell’ordine che si pone tra il diaconato e l’episcopato. Prima del Concilio Vaticano II invece si distingueva tra ordini minori (lettore, accolito, esorcista e ostiario) e ordini maggiori (suddiacono, diacono e presbitero). L’impianto è stato poi riformato e alcune funzioni degli ordini minori possono essere svolte dai laici anche senza aver ricevuto uno specifico ordine. Oggi c’è un unico ordine che ha in sé tre gradi: il diaconato, il presbiterato e l’episcopato.

Il seminario minore

«Ai ragazzi e ai giovani che mostrassero segni chiari di vocazione al presbiterato, si aprono, a seconda dell’età, due percorsi propedeutici al seminario maggiore: la comunità del seminario minore [11-19 anni] e la comunità propedeutica» (Ibidem, cap. II, 1, 34). Dove a colpirmi è l’attenzione che si pone al fatto comunitario: il seminario è ad ogni livello una comunità e ciò rileva che questa è una dimensione essenziale per la formazione sia culturale che propriamente ecclesiale. «Il seminario è, in se stesso, un’esperienza originale della vita della Chiesa… Già sotto il profilo umano, esso deve tendere a diventare una comunità compaginata da profonda amicizia e carità così da poter essere considerata una vera famiglia che vive nella gioia… Il seminario non è dunque solo un’istituzione funzionale all’acquisizione di competenze teologiche e pastorali, o un luogo di coabitazione e di studio. È anzitutto luogo di vera e propria esperienza ecclesiale, una singolare comunità di discepoli… una comunità educativa in cammino… un’autentica scuola di santità» (Ibidem, cap. III, 1, 60-63).

Verso il seminario minore ci sono stati atteggiamenti diversi: nella fase immediatamente successiva al Concilio dominava l’idea che le vocazioni "tardive" fossero quelle da guardare con particolare interesse, poiché garantivano una scelta più consapevole. In questo caso, il giovane (o anche un adulto) entrava nel seminario maggiore per la formazione sacerdotale specifica, spesso avendo ottenuto un diploma ordinario o una laurea. Nella pedagogia allora in voga, qualcuno arrivava a parlare di una impossibilità di scelta in età infantile e adolescenziale, e riteneva che il seminario minore potesse al massimo essere una scuola cattolica parificata. Oggi la tendenza è cambiata e il citato documento dei vescovi dà nuova importanza ai seminari minori. «La Chiesa mette a disposizione, anche per l’età della preadolescenza e dell’adolescenza, una specifica comunità per l’iniziale discernimento e accompagnamento delle vocazioni al presbiterato… Offre a ragazzi e adolescenti una proposta di vita al seguito di Gesù, in un contesto comunitario, tenendo conto delle esigenze tipiche dell’età… Perché il seminario possa svolgere efficacemente il suo compito ha bisogno di un’équipe educativa stabile e motivata, preparata ad affrontare i problemi dell’adolescenza…» (Ibidem, cap. II, 2, 35.37).

Ed è a questo punto che si fa riferimento alle competenze psicopedagogiche. «La formazione umana prevede un prudente ricorso al contributo delle scienze psicopedagogiche» (ibidem, Presentazione, 5). Costante è infatti la prudenza manifestata nei confronti di queste discipline, e anche della psicologia. Al cui riguardo si dirà che lo psicologo è un consulente esterno, che non fa parte del gruppo degli operatori interni: il rettore, il direttore spirituale, gli educatori (talora detti animatori). Ma la cosa più interessante è che si afferma con nettezza che il protagonista della formazione è anzitutto lo Spirito di Cristo, quindi il Vescovo e poi le équipes educanti stabili all’interno del seminario.

La comunità propedeutica

«La comunità propedeutica raccoglie i soggetti che aspirano al sacerdozio e non hanno fatto il seminario minore, o l’hanno fatto in altri contesti o in altre nazioni. Qui si fermano in genere un anno, salvo diverse disposizioni, e percorrono "uno specifico itinerario di introduzione al seminario maggiore» (Ibidem, cap. II, 3,47). La Conferenza episcopale italiana suggerisce che in questo anno il giovane viva in una sede autonoma anche se all’interno di una comunità propedeutica (potrebbe essere una parrocchia), sempre allo scopo di «verificare i segni oggettivi di un effettivo orientamento al presbiterato…» (Ibidem, cap. II, 3,48 ). «A tal fine è raccomandato, nel rispetto della libertà di ciascuno, il ricorso all’apporto della valutazione psicodiagnostica…» (Ibidem, cap. II, 3,50). Questa valutazione è «intesa a riconoscere nel momento presente gli elementi che manifestano la disponibilità effettiva della persona (o le eventuali resistenze conscie e inconscie) a lasciarsi plasmare dalla grazia» (Ibidem, cap. II, nota 104).

Questa formula propedeutica lascia intendere indirettamente che la via considerata oggi migliore (o potremo dire ancora oggi migliore) sia quella della continuità di formazione che si avvia nel seminario minore, il quale proprio per questo conosce oggi una nuova rivalutazione.

Il seminario maggiore

Al seminario maggiore occorre comunque essere ammessi, e tra i limiti che possono fare da ostacolo all’ingresso c’è la salute fisica e mentale. Si richiede infatti «una personalità sufficientemente sana e ben strutturata dal punto di vista relazionale: prima di ammettere un giovane in seminario, occorre accertarsi, eventualmente con l’ausilio di un’adeguata valutazione psicodiagnostica, che sia immune da patologie psichiche tali da pregiudicare un fruttuoso cammino seminaristico… [occorre che ci sia] l’orientamento alla vita celibataria: l’orientamento affettivo del dono totale di sé nel carisma verginale deve essere presente fin da quando un giovane decide di entrare in seminario… Per nessuna ragione, evidentemente, può essere presa in considerazione la domanda di coloro che manifestassero tendenze pedofiliche» (Ibidem, cap. II, nota 118).

Si tratta di un «tempo di vita comune per stare con Gesù e con i fratelli… una vita comunitaria, gerarchica… in cui i seminaristi stessi sono protagonisti insostituibili della loro formazione» (Ibidem cap. III, 1, 58; 3, 73 ).

Il percorso di studio del seminario maggiore è diviso in tre bienni: il primo (biennio iniziale) ha come meta l’effettiva ammissione e le conoscenze e caratteristiche necessarie. Il secondo biennio si qualifica come specifica iniziazione al sacerdozio, attraverso l’acquisizione nel terzo anno del lettorato e nel quarto dell’accolitato. Il lettore si lega a un rapporto peculiare con la parola di Dio, con la lectio divina; nel quarto si stabilisce un rapporto privilegiato con l’eucaristia. Nel terzo biennio si ha la preparazione immediata verso l’ordinazione diaconale che avviene al quinto anno e l’ordinazione sacerdotale al sesto. Mentre si acquisiscono queste specificità ecclesiali, si segue un programma articolato di studi filosofici, teologici e liturgici.

La dimensione psicologica

«Nell’ambito della formazione umana dei seminaristi, può essere utile l’intervento degli psicologi. Tale intervento non è finalizzato direttamente al discernimento della vocazione, compito che spetta agli educatori del seminario… All’inizio del cammino di formazione, gli psicologi possono coadiuvare gli educatori a individuare nei candidati eventuali problemi di psicopatologia…». Inoltre, «durante gli anni del seminario, essi possono aiutare i seminaristi a raggiungere una maggiore conoscenza di sé» (Ibidem cap. III, 3, 76).

«Nella scelta degli psicologi di riferimento... è necessario verificare che la base su cui si fonda il loro lavoro sia coerente con la dimensione trascendente della persona e con l’antropologia cristiana della vocazione» (cfr. Ibidem, cap. III, 3, 76). «È opportuno che la possibilità di un’indagine e valutazione psicodiagnostica sulla propria personalità sia offerta a tutti, nel rispetto della libertà di ciascuno, all’inizio del percorso formativo» (Ibidem cap. III, 4, 94).

Pur in una cauta apertura, più volte richiamata nel documento, si avverte una certa preoccupazione a che le scienze psicologiche possano interferire nel percorso formativo. Il protagonista principale in seminario è lo Spirito di Dio, manifestatosi in Cristo, che è il modello a cui uniformare la propria esistenza.
È questo il contesto entro cui i giovani entrano in seminario e acquisiscono la denominazione di seminaristi.
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I PRETI E NOI Empty Quarta parte: Il Seminario

Messaggio  Fabio Ven Set 19, 2008 3:45 pm

Ed eccosi alla quarta parte dopo aver fatto una pausa per l'estate Very Happy
Buona lettura

Quarta puntata

Il seminario


Una scelta "precoce"


Si ha la percezione, non so quanto suffragata dai fatti, che sia in atto una rivalutazione circa il seminario minore. Un’opzione che si inquadra nella strutturazione dei nuovi percorsi formativi del futuro sacerdote, e che potrebbe motivarsi anche per la dispersione che caratterizza le esperienze infantili e adolescenziali odierne. In altre parole, potrebbe emergere sempre più nettamente la volontà di promuovere un’educazione più stretta, dunque più raccolta, in ordine alla formazione del sacerdote "in erba". Il seminario minore diventa in questo caso il luogo in cui si favorisce l’esplicitarsi di una chiamata, in un clima fatto anche di silenzi e di raccoglimento, invece che di quel baccano del mondo che sembra impedire la coltivazione dell’interiorità e riduce l’uomo alla sua superficie cutanea e all’apparire.

Se è vero che la scuola in generale deve prima di tutto insegnare a vivere, e dunque non limitarsi alla trasmissione di informazioni tecniche, ne deriva che una vera formazione condotta in età scolare debba occuparsi anche dei modelli esistenziali, a cui si legano processi importanti proprio per la maturazione e l’equilibrio della personalità.

Se si volesse ricercare un confronto, vengono in mente le scuole militari: ad esempio, la Nunziatella di Napoli (che ora è anche a Milano), in cui si entra in età adolescenziale, per completare gli studi liceali, e poi passare alle accademie militari, come quella di Modena per l’esercito, nelle quali si conclude la preparazione specifica, che è poi l’università per gli ufficiali.
Comunque la si voglia vedere, nelle varie tendenze e organizzazioni, l’età della adolescenza è molto importante ai fini di una formazione rigorosa. Così anche il seminario lo è, pur con i suoi adattamenti da luogo a luogo: in esso il giovane seminarista si prepara alla vita ma anche specificamente al sacerdozio, con la consapevolezza e la maturità che la scelta comporta. Già, perché questo può essere per taluni un problema.

Psicologia, elemento non decorativo


Colpisce, nel documento normativo per formazione al sacerdozio, la prudenza riservata verso gli strumenti diagnostici e terapeutici, o anche solo analitici, quali sono forniti oggi dalle psicologie, in un periodo come l’attuale nel quale si ricorre abitualmente ad esse per capire ciò che in una persona può ancora non apparire. Tanto più che detto documento, emesso nel 2006 dalla Conferenza episcopale, cita l’inconscio, e lo fa in termini certamente corretti, quale istanza che può incidere su scelte e comportamenti.
Insomma, si avverte un’attrazione che nel contempo genera allerta. E questa risente forse di un passato critico, influenzato dalla teoria freudiana e da alcune esperienze di psicoanalisi, la quale ? com’è noto ? si propone un’esplorazione della personalità profonda, senza essere centrata su un problema specifico di personalità o comportamentale. Bisogna tuttavia dire che taluni comportamenti espressi da sacerdoti sarebbero stati per tempo individuati, se ci si fosse affidati alle valutazioni psicologiche o psicoanalitiche (voce disturbi della sfera sessuale).

Una certa cautela la si può riconoscere anche nella richiesta di prestazioni psicologiche da parte di professionisti esterni, che se troppo limitate potrebbero risultare anche scarsamente utili. Più che il dato di fede o l’adesione a determinate scuole, nello psicologo cercherei un’indiscussa professionalità, fatto salvo sempre il rispetto per il seminarista, la sua scelta e il suo impegno.

La chiamata da parte di Dio


Non si deve mai giungere frettolosamente alla conclusione che l’ingresso in seminario sia già una determinazione a svolgere "quel" particolare ruolo sociale che è proprio del sacerdote. La chiamata di Dio ha bisogno di tempi lunghi per palesarsi ed essere verificata. Fondamentale tuttavia è l’atteggiamento di fede, e l’appartenenza alla fede stessa.

Ma ciò non è ancora la vocazione al sacerdozio. Per questo si rende necessaria una fase lunga di monitoraggio, che avrà cura di seguire, oltre alla disposizione individuale, anche gli effetti della chiamata sulla persona.

In questa sequenza, che dovrà rivelare una progressione nella consapevolezza circa la scelta da compiere, ci sarà vicino al seminarista un’opera educativa partecipata, l’equivalente di ciò che fa il tutor delle scuole inglesi, ma forse ancora più assidua, e che punta specificamente alla crescita vocazionale, con attenzione ai segni di cambiamento che, oltre a essere propri di ogni adolescente, si legano a quell’evento particolare che è la vocazione al sacerdozio.
Forse, per comprendere le scelte della Conferenza episcopale occorre passare dal fatto psicologico, legato alla verifica di doti e attitudini, all’"evento" dell’incontro con Dio che coinvolge tutta la persona, nella sua specificità e concretezza.

Due dimensioni di un’unica scelta


Il seminario è, quindi, il luogo in cui si valutano e si coltivano quelli che a me sembrano i due versanti della vocazione, quello – appena menzionato – della chiamata divina e quello più legato al ruolo che per il futuro sacerdote si prospetta nella società.

Queste due dinamiche sembrano evocare, nel tempo presente, competenze e profili diversi ma chiamati a collaborare in vista della costruzione della stessa personalità: da una parte il padre spirituale, oltre che gli educatori, dall’altra il psicologo professionista, nella veste del consulente ipotetico. Una considerazione a cui probabilmente si è arrivati in forza non tanto di valutazioni teoriche ma alla luce di esperienze qua e là accadute. Per le quali c’è da dire che quando un tutorato psicologico viene condotto con modalità di separatezza, può capitare che, se pur si offre al singolo l’opportunità di risolvere problemi rilevanti della personalità (disturbi) legati sia alla scelta che alla formazione, si finisce tuttavia per provocare una separazione delle problematiche, e persino una duplicità di percezione quanto all’"essere nel mondo", con la conseguenza di creare artificiosamente dei problemi.

A parte questo nodo, l’intervento psicologico – quando è richiesto – esige colloqui ripetuti per un tempo che non è possibile ipotizzare in via preventiva.

Se ne sono dedotti alla fine una serie di criteri operativi. Ne cito due: il primo è quello di operare delle verifiche molto attente, compreso lo studio di personalità, prima di inserire un giovane nel seminario maggiore; il secondo, di attivare quando serve la relazione con uno psicologo esterno, che possa intervenire su casi specifici, o su richieste precise, prevedendo persino in circostanze rare dei periodi di interruzione del percorso formativo.

Bisogna aggiungere, infine, che uno screening psicologico esteso a tutti finirebbe per essere talmente generico e superficiale da non dare né garanzia vocazionale né aiuto ai singoli seminaristi.
Sempre in riferimento alla psicologia c’è tuttavia una buona notizia. Nel senso che la materia è ora prevista tra le discipline fondamentali, dove infatti figurano le Scienze umane. «È necessario – si dice – che negli anni della formazione i seminaristi acquisiscano la capacità di conoscere in profondità l’animo umano, intuirne difficoltà e problemi, facilitare l’incontro e il dialogo, ottenere fiducia e collaborazione, esprimere giudizi sereni e oggettivi. Inoltre, essi devono poter disporre degli strumenti essenziali per una valutazione delle dinamiche e delle strutture sociali. A tal fine di non poca utilità sono le cosiddette Scienze dell’uomo, la psicologia e la sociologia» (Cei, Formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana: orientamento e norme per i seminari, cap. IV, 2, 2). E così, la psicologia tenuta a bada nella valutazione del dato umano dei chiamati, acquista un suo peso negli itinerari formativi degli stessi, in vista del ministero.

La "chiamata" annulla il resto?


E qui si pone subito una questione che, per me, ha la consistenza dei principi teorici. La certezza della vocazione, come chiamata speciale e misteriosa di Dio, rende inutili altre attenzioni? In altre parole, se uno è stato chiamato da Dio, gli serve un accompagnamento anche per quanto riguarda l’impatto con la società? È possibile che Dio chiami chi al contempo non ha le caratteristiche personali per svolgere il ruolo sacerdotale?

È del tutto probabile che la presenza strutturale degli educatori e in particolare del padre spirituale, presente di norma nell’itinerario di ogni seminarista, abbia in sé i requisiti che rendono secondario ogni altro intervento. È tuttavia innegabile che la vicenda di non pochi sacerdoti sia anche prova che questo criterio da solo può in certi casi rivelarsi fragile.

La mia convinzione risente ovviamente dell’esperienza clinica, e dunque delle scienze comportamentali; perciò sono persuaso che i risvolti umani debbano essere tenuti in considerazione. In altre parole, che la vocazione di speciale consacrazione vada iscritta nella dotazione terrena, che non è solo biologica ma anche sociale, perché – come s’è detto – ogni professione risente delle condizioni in cui si svolge, e di conseguenza fare il sacerdote oggi richiede adattamenti che non urgevano ieri.

Occasione per "volare alto"

La valutazione della chiamata speciale è necessaria sempre, e particolarmente quando si avvicina il momento della ordinazione e dunque delle scelte definitive, che poi significa anche l’adozione di uno stile particolare di vivere in società. Fino a questo momento deve essere possibile attendere e anche desistere.

Va da sé che non sia prudente spingersi verso l’ordinazione quando sussiste un dubbio vocazionale: sarebbe un errore affidarsi, almeno in questo caso, alla speranza. È troppo delicato per il singolo individuo e per la società che un sacerdote fallisca nella sua scelta: si determina per lo più un infelice, una persona che finisce per rappresentare male la Chiesa, la quale verrà a sua volta mal percepita dai fedeli.

Occorre valutare la chiamata di Dio come una gioia, ma mai la non-chiamata alla vita religiosa come un rifiuto da parte di Dio. Al massimo essa potrebbe voler dire che uno vivrà la propria vita nelle forme ordinarie, impegnandosi in una professione normale, che a sua volta arricchisce il valore della vita stessa.
Proprio per questo occorre che la vita del seminarista sia tranquilla e serena, impegnata ma non ossessiva. Egli si avvertirà un prescelto da Dio senza per questo ritenersi un toccato dall’onnipotenza. Il che gli permetterà di non sentirsi abbandonato o escluso nel caso che, verificando la vocazione, dovesse concludere che non è fatto per il sacerdozio.
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Messaggio  francescoleone Lun Set 22, 2008 12:57 pm

Aiuto ..................................mi stanno girando gli occhi ma un piccolo riassunto non si può avere.....................................
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